Piango amaramente per averti causato questo dolore, per averti fatto sentire debole, inetta e sola, piango per essere la persona che sono: un irrequieto, un insoddisfatto, uno sempre alla ricerca di qualcosa, per molti aspetti un infelice, anche se riesco a mascherarlo bene.
Per questo non ho mai progettato la mia vita, nemmeno con te, e non perché tu non ne fossi all’altezza. Io lo sapevo bene che avevi bisogno d’altro, di stabilità e sicurezza. Me ne curavo, eccome, e te l’ho detto più volte. Mi aspettavo che a un certo punto ti saresti stancata di me, ma nel frattempo pensavo di poterti anche fare del bene e renderti più forte.
Non mi sono mai sentito superiore a te. Al contrario è per merito tuo – parlo della tua dedizione nei mie confronti, del coraggio che mi hai dimostrato nel credere in noi – che alla fine mi sono deciso di trovare un equilibrio, prima dentro di me ed infine in questa città d’acqua.
Ad ottobre ho lasciato andare un lavoro di tre mesi in Sud-Africa. Lo yoga che facevamo assieme mi stava facendo bene anche per questo. La gelosia, mai provata prima, che avevo nei tuoi confronti era diventata un modo per esprimere l’importanza che avevi acquisito per me. Mi logoro ripensando a come mai questo non ti sia arrivato, ma anche, semplicemente, a come quell’ultima domenica assieme non sia bastata a farti arrivare che ti amavo oltre a tutto quello che potevo, e non riuscivo, a dire a parole. Avrei dovuto scriverti come sto facendo ora, avrei dovuto farlo prima.
Anch’io provo rabbia nei tuoi confronti per questo motivo, specie a quando penso che a quel punto stavi ascoltando le parole di un altro. Credo che quegli atteggiamenti di distacco che hai odiato di me, e che ti provocano il risentimento che hai nei miei confronti, abbiano nascosto ai tuoi occhi ciò che più in profondità stavo meditando. Al contempo penso che la tua attenzione fosse rivolta ad altro. Ma se è così, allora non mi spiego come hai potuto fare l’amore con me a quel modo, al punto che ho gridato gemiti che erano preghiere a Dio e nei tuoi occhi ho visto il nostro presente, passato e futuro. Tu c’eri, eri lì con me, eravamo uno. L’ho vissuto da solo tutto questo? Io non ci credo.
Ora che ci siamo lasciati mi ritrovo a fare disperatamente i conti con quella voce che ulula dentro di me e mi chiede di non attaccarmi a niente e nessuno, di non indugiare troppo in nessun posto, in nessun lavoro, di non accettare nessun compromesso e di continuare ad andare come un vagabondo nel mondo. È un impulso che so, non mi porterà alla felicità, forse soltanto a una maggior consapevolezza della vita nelle sue molteplici forme. Ma, ho paura che sia una consapevolezza che non dia frutto, semplicemente qualcosa che matura in un continuo divenire di mutamenti tra pochi piaceri e molta sofferenza, senza arrivare veramente a niente. È una parte di me che mi fa sentire molto solo. In tutto questo oceano penso che tu mi abbia gettato un salvagente ed io non sono riuscito a prenderlo. Sto ancora annaspando per provare a riavvicinarmi, ma sento che le correnti mi portano via.
Allora scrivo dell’uomo che sarò per non lasciarmi annegare, per ricordarmi la strada che ho intrapreso, ma soprattutto per fissare una meta intermedia che ritengo raggiungibile, continuando a lavorare su me stesso. Non voglio essere un uomo ordinario, specie come lo sono gli uomini di questo tempo, in preda all’individualismo assoluto. Ma, come posso in qualche modo mettere un limite al mio Ego? Voglio provare con tutte le mie forze ad andare oltre, affrontando tutta le sofferenze che questo comporterà.